IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al
 n. 4493/80 registro  generale  promossa  da  Salot  Giacomo  e  Alda,
 rappresentati  e  difesi  dall'avv.  F.  Paolo  Videtta con studio in
 Torino, via Cernaia n. 30 come da delega in atti,  attori  contro  il
 comune  di  Corio,  in  persona  del  sindaco  legale  rappresentante
 pro-tempore, rappresentato e difeso ai fini  del  giudizio  dall'avv.
 prof.  C. Dal Piaz, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio
 in Torino, via S. Agostino n. 12, come da procura speciale agli atti,
 convenuto.
                       Svolgimento del processo
   Con  atto  notificato  in data 23 maggio 1980 Salot Giacomo e Alda,
 eredi di Salot  Michele, evocavano in giudizio avanti al Tribunale di
 Torino il comune di Corio, esponendo: che con  ricorso  straordinario
 al  Presidente  della  Repubblica  Salot  Michele  aveva impugnato il
 decreto del presidente della Giunta regionale 25  novembre  1975,  n.
 4954  con il quale era stata dichiarata la pubblica utilita', nonche'
 l'idifferibilita' e l'urgenza dell'opera di realizzazione di un parco
 pubblico nel comune di Corio su un terreno di sua proprieta'  di  mq.
 4721  sito  al  f.  31  mapp.  377;  che  il  Salot  aveva  impugnato
 contestualmente la delibera della Giunta regionale n. 47.518  del  14
 ottobre  1975,  avente  il medesimo oggetto, la delibera 24 settembre
 1974, n. 69 del consiglio comunale di Corio con la  quale  era  stato
 approvato  il  piano  di  esproprio  ed  il decreto 2 agosto 1976 del
 presidente  della  Giunta  regionale  pertinente  all'esproprio   del
 terreno  in  questione;  che con decreto 20 luglio 1979 il Presidente
 della Repubblica, su conforme parere del Consiglio  di  Stato,  aveva
 accolto   il   suddetto   ricorso  straordinario,  sicche'  gli  atti
 dichiarativi dell'espropriazione erano carenti del loro indefettibile
 presupposto logico e giuridico; che a  seguito  dell'occupazione  del
 terreno  l'amministrazione  comunale deteneva abusivamente l'immobile
 in oggetto e pertanto era tenuta al risarcimento dei  danni  ex  art.
 2043 codice civile.
   Gli  attori  concludevano chiedendo la condanna del comune di Corio
 al risarcimento dei danni dai  medesimi  patiti  oltre  rivalutazione
 monetaria e interessi.
   Il  comune  di Corio, costituitosi in giudizio, eccepiva il difetto
 di legittimazione degli attori, in considerazione della  mancanza  di
 prove  della loro qualita' di eredi Salot Michele, assumendo altresi'
 che l'annullamento della dichiarazione di pubblica utilita' era stato
 disposto per motivi  formali  ed  ininfluenti  sull'effettivo  potere
 dell'amministrazione  di  procedere all'esproprio previa rinnovazione
 dell'iter di legge.
   Parte convenuta concludeva pertanto chiedendo rigettarsi le domande
 avversarie.
   Nel corso dell'istruttoria, dopo l'espletamento di  una  consulenza
 tecnica  volta  ad accertare il valore reale dell'immobile al momento
 dell'occupazione, il comune di Corio eccepiva altresi' che gli attori
 non avevano dato prova dell'effettiva  titolarita'  della  proprieta'
 del  terreno,  dovendosi tener conto dell'intestazione della relativa
 partita  catastale  alla  ditta  "eredi  di  Domenico  Salot:  Maria,
 Domenica  e  Caterina  Salot", dell'opposizione proposta da Garigliet
 Ciapus Natalina al decreto  di  riconoscimento  della  proprieta'  ex
 legge  n.    1610/62  in  capo  a Salot Michele emesso dal pretore di
 Cirie' in data 28 maggio 1974 (giudizio  quest'ultimo  poi  riassunto
 avanti  al  Tribunale  e  quindi abbandonato), nonche' del successivo
 giudizio instaurato, con citazione notificata  il  30  gennaio  1979,
 onde ottenere la revoca di detto decreto dal curatore speciale, dott.
 Biongiovanni, degli scomparsi eredi di Domenico Salot.
   Dopo   la   precisazione   delle   conclusioni,   a  seguito  della
 presentazione in data 26 settembre 1983 da parte del comune di  Corio
 alla  S.U.    della  Corte  di  cassazione di ricorso per regolamento
 preventivo di giurisdizione,  con  ordinanza  30  settembre  1983  il
 tribunale disponeva la sospensione del procedimento ex art. 367 cpc.
   Con  sentenza 20 marzo 1986, n. 1968 la Suprema Corte dichiarava la
 giurisdizione dell'autorita' giudiziaria ordinaria.
   Dopo la riassunzione della causa con ordinanza 13 febbraio 1987  il
 tribunale  disponeva  la  rimessione  in istruttoria per mancanza dei
 verbali del giudizio.
   Nel prosieguo, in considerazione  del  mutamento  dell'orientamento
 giurisprudenziale il g.i. disponeva altra consulenza tecnica volta ad
 accertare  il  valore  dell'immobile  al  momento  dell'irreversibile
 trasformazione del fondo.
   Rimessa nuovamente la causa a decisione, con  ordinanza  27  aprile
 1990  il  tribunale disponeva la sospensione del procedimento ex art.
 295 c.p.c. fino all'esito del giudizio instaurato dal Bongioanni  nei
 confronti degli odierni attori.
   Conclusosi  detto  giudizio  con  sentenza della Corte d'appello 23
 ottobre 1993 n. 1319, con ricorso notificato in data 21 dicembre 1994
 gli attori provvedevano alla riassunzione del procedimento.
   All'udienza del 9  febbraio  1996  la  causa  venita  trattenuta  a
 decisione dal tribunale.
                        Motivi della decisione
   Nell'ultima comparsa conclusionale la difesa del comune di Corio ha
 invocato  l'applicabilita', nella fattispecie di causa, dell'art.  1,
 comma 65, della legge 28  dicembre  1995  n.  549,  pubblicata  sulla
 Gazzetta  Ufficiale del 29 dicembre 1995 ed immediatamente entrata in
 vigore.
   Trattasi di norma sostitutiva dell'art.  5-bis,  comma  sesto,  del
 d.-l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito con modificazioni dalla legge
 8  agosto  1992, n. 359, alla stregua della quale le disposizioni del
 citato articolo si applicano in tutti i casi in cui  non  sono  stati
 ancora   determinati   in   via   definitiva   il  prezzo,  l'entita'
 dell'indennizzo e/o il risarcimento del danno alla data di entrata in
 vigore della legge di conversione del decreto.
   Cio' ovviamente comporta che le disposizioni di cui all'art.  5-bis
 costituzionalmente  ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con
 sentenza 10-16 giugno 1993 n.  283  -  implicanti  la  determinazione
 della misura dell'indennita' di espropriazione con un meccanismo
  escludente  il  riferimento al valore venale dell'immobile in libera
 contrattazione - si applicano  anche  al  caso  in  cui  siano  state
 avanzate pretese risarcitorie a seguito di un'occupazione abusiva e a
 tutte  le  controversie pendenti, in quanto tali caratterizzate dalla
 mancanza di una determinazione in  via  definitiva  dell'entita'  del
 risarcimento del danno.
   Sulla  base  di  tali  premesse  parte  convenuta  ha  richiesto la
 rimessione in istruttoria del procedimento affinche' venga nuovamente
 determinata l'entita'  del  risarcimento  del  danno,  non  potendosi
 utilizzare  ai  fini  della  decisione  la consulenza in atti facente
 riferimento esclusivo al valore venale dell'immobile in oggetto.
   Con memoria di replica datata 2  febbraio  1996  parte  attrice  ha
 prospettato  l'incostituzionalita' dell'art. 1, comma 65, della legge
 29 dicembre 1995 n. 549, chiedendo la remissione della  questione  al
 giudice  delle leggi, con particolare riferimento all'applicazione ad
 una fattispecie risarcitoria di criteri  dichiarati  validi  per  una
 fattispecie  indennitaria e ad una asserita violazione degli art.  3,
 42,  secondo comma, 42, terzo comma, 97 della Costituzione, oltre che
 del   principio   di    ragionevolezza    anche    in    correlazione
 all'applicazione retroattiva dei criteri suddetti.
   Ad  avviso  del  tribunale,  la questione prospettata e' certamente
 rilevante ai fini del decidere, posto che  e'  pregiudiziale  per  la
 definizione della causa la risoluzione della stessa.
   Ed invero, in caso di accertamento positivo della costituzionalita'
 della  norma,  il  tribunale  dovra' adeguarsi ai criteri indicati da
 detta  disposizione  e  conseguentemente  rimettere   la   causa   in
 istruttoria  onde  consentire  la  determinazione del danno; nel caso
 contrario, di declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  della
 norma,   la  controversia  potra'  essere  decisa  sulla  base  delle
 risultanze processuali gia' acquisite.
   Il tribunale ritiene altresi' che la questione  sollevata  non  sia
 manifestamente infondata.
   Il  principio  di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. non impone di
 dare alle leggi un contenuto eguale per tutti i cittadini  cosi'  che
 tutti godano dello stesso trattamento.
   Viceversa la sua applicazione esige, che a diversita' di situazioni
 corrisponda  una diversita' di trattamento, da valutarsi, nell'ambito
 dell'esercizio del potere legislativo, secondo le comuni regole della
 logica   necessariamente   proposta   al   preventivo    accertamento
 dell'effettiva  sussistenza  delle  peculiarita' dei singoli rapporti
 regolati che prima facie non devono essere prive di ogni carattere di
 ragionevolezza.
   Cio' ovviamente comporta che a situazioni differenti non  si  possa
 riservare   tout   court   il   medesimo   trattamento,  fatto  salvo
 l'accertamento di elementi  di  comunanza  tali  da  giustificare  la
 scelta legislativa in oggetto, senza incorrere, cosi' facendo, in una
 violazione del citato principio di eguaglianza.
   Orbene,  nella  fattispecie  la  riserva  di  trattamenti  simili a
 situazioni radicalmente  diverse  emerge  laddove  si  consideri  che
 l'art.  5-bis  d.-l. 11 luglio 1992 n. 222 e' norma regolatrice della
 determinazione dell'indennita' di  espropriazione  nell'ambito  delle
 procedure   amministrative   di   siffatta   natura,  destinate  alla
 realizzazione di opere di pubblica utilita'.
   E proprio in considerazione di tale funzione e' stata  ritenuta  la
 legittimita'  costituzionale di detta norma, ponendosi in evidenza la
 giustificazione di un  diverso  trattamento  riservato  a  situazioni
 pertinenti  ad  immobili situati nella medesima zona, rispettivamente
 caratterizzata  dalla   ricorrenza   ovvero   dall'esclusione   della
 idoneita'  alla  realizzazione  di  un'opera  di pubblico interesse e
 pertanto reputate provviste di peculiarita' differenti.
   Viceversa l'equiparazione, derivante dalla  modifica  di  legge  in
 discussione,   tra   un'ipotesi  di  abuso,  implicante  una  lesione
 patrimoniale  da  ripristinarsi  in  toto  sulla  base  dei  principi
 generali  mediante  il  riconoscimento  del risarcimento del danno, e
 un'ipotesi di legittimo esproprio, in  quanto  tale  suscettibile  di
 indennizzo ricollegabile ad atto lecito, determina inevitabilmente il
 risconto   di   un   trattamento  paritario  riservato  a  situazioni
 profondamente diverse e come tale, a contrario, lesivo del  principio
 dinanzi menzionato.
   Ne' ritiene il tribunale che a tale assunto si possa controbbattere
 ponendosi  l'accento  sull'interesse  pubblico di fatto ricollegabile
 alla destinazione irreversibile dell'immobile, dovendosi osservare al
 riguardo che, alla stregua dei principi generali, il perseguimento di
 finalita'  pubbliche  dev'essere  strettamente   collegato   ad   una
 scrupolosa  osservanza  delle  procedure  all'uopo  contemplate dalla
 legge onde evitare, per l'appunto, la  realizzazione  di  eccessi  di
 poteri.
   Tale  rilievo introduce l'ulteriore prospettazione della violazione
 dell'art. 97 Cost., norma  implicante  la  previsione  dei  principi,
 preposti  alle disposizioni di legge in materia, del buon andamento e
 dell'imparzialita' dell'amministrazione.
   Ed infatti, non si puo' non  constatare  che  l'equiparazione  agli
 effetti  pratici  tra  procedure imposte dalla legge a garanzia delle
 posizioni individuali dei singoli cittadini ed atti  assimilabili  ad
 uno spoglio contrasta con i principi anzidetti che necessariamente, a
 norma  dell'art.  97  Cost., devono improntare l'organizzazione della
 p.a. in previsione dell'azione successiva dalla medesima espletata.
   Ed ancora ritiene  il  tribunale  che  siano  ravvisabili  altresi'
 violazioni  del  dettato costituzionale con riferimento agli art. 42,
 secondo comma, e 42, terzo  comma,  della  Costituzione,  norme  alla
 stregua delle quali la proprieta' privata e' riconosciuta e garantita
 dalla legge e puo' essere, nei casi previsti dalla legge, espropriata
 per motivi di interesse generale.  Se, da un lato, in correlazione al
 primo  parametro  e  alla  mancanza  delle  necessarie garanzie della
 proprieta' privata non si puo' non rimarcare  la  non  adeguatezza  e
 congruita'  del  "ristoro"  assicurato dalla disposizione di legge in
 oggetto  alla  vittima  dell'illecito,  e  soprattutto   la   mancata
 corrispondenza  del  "risarcimento"  ai criteri generali di integrale
 ripristino della situazione patrimoniale lesa, in  guisa  che  appare
 fuori  luogo  lo  stesso riferimento ad una reintegrazione del danno,
 dall'altro si deve evidenziare che  l'art.  42,  terzo  comma,  Cost.
 consente  la  perdita  della  proprieta'  dietro corresponsione di un
 indenizzo solo  nei  casi  di  una  regolare  procedura  d'esproprio,
 certamente   non   ricorrente   nell'ipotesi  di  una  appropriazione
 irreversibile conseguente ad abusiva occupazione.   Ne',  del  resto,
 tali   assunti  trovano  smentita  in  quanto  statuito  dalla  Corte
 costituzionale nella sentenza sopra citata, laddove si consideri  che
 in  detta sentenza e' stato ribadito il principio, gia' in precedenza
 affermato, secondo cui, in considerazione  degli  scopi  di  pubblica
 utilita'  perseguiti  dal procedimento espropriativo, l'indennita' di
 espropriazione  non  dev'essere  esattamente  commisurata  al  valore
 venale  del  bene  e  nel contempo, tenuto conto altresi' del rilievo
 riconosciuto  alla  proprieta'  privata   dalla   Costituzione,   non
 dev'essere  meramente  simbolica o irrisoria.   Trattasi di principio
 alla stregua del quale e' stata ritenuta la legittimita'  di  criteri
 legislativi  "mediati",  purche'  caratterizzati dalla costante di un
 riferimento al valore del bene, tra cui, da ultimo, per l'appunto,  i
 criteri  dall'art.  5-bis  del  decreto-legge  11 luglio 1992 n. 333,
 contenenti il richiamo alle disposizioni della legge 15 gennaio  1985
 n.  2892,  con la contestuale previsione della sostituzione dei fitti
 coacervati dell'ultimo decennio mediante il  riferimento  al  reddito
 domenicale  rivalutato ai sensi degli art.  24 T.U. delle imposte sui
 redditi approvato con d.P.R.  22  dicembre  1986  n.  917  e  con  la
 contestuale  previsione  di  una riduzione del 40% dell'importo cosi'
 determinato.    Ma proprio tali rilievi rafforzano gli assunti dianzi
 esposti, se si considera che i principi enunciati  alla  Corte  hanno
 attinenza  esclusiva  alla  funzione  indennitaria,  collocabile solo
 nell'ambito di una legittima procedura  d'esproprio,  certamente  non
 richiamabile  nell'ipotesi di perpetrazione di un illecito, a meno di
 non riconoscere come giustificato il sacrificio di un singolo privato
 a fronte del perseguimento di fatto di finalita' di  natura  pubblica
 al   di  fuori  delle  ordinate  procedure  di  legge  e  dei  canali
 amministrativi  previsti  in  via  esclusiva   dalla   stessa   Carta
 costituzionale  onde  consentire la perdita della proprieta' privata.
 Tutto quanto fin qui esposto ha  altresi'  dei  riflessi  inevitabili
 sull'esigenza  generale che l'azione del legislatore sia improntata a
 coerenza logica e ragionevolezza.
   Non appare infatti ragionevole che una normativa  -  destinata  tra
 l'altro   a   supplire   la   mancanza   di   un'organica  disciplina
 dell'espropriazione  per  pubblica  utilita',   cosi'   come   recita
 espressamente  il  primo  capoverso  dell'art.  5-bis  -  sia  sic et
 simpliciter  estesa  ad  ipotesi  del  tutto  differenti,  quali  per
 l'appunto  quelle  conseguenti  ad un fatto illecito, gia' oggetto di
 una regolamentazione propria  discendente  dai  principi  generali  e
 prive  di  qualsivoglia  connessione  con  la  fattispecie  normativa
 richiamata  per  relationem.     Tanto  piu'   appare   irragionevole
 l'applicazione  retroattiva dei criteri in questione.  Posto che, pur
 essendo  ammissibile  una  disciplina  a  carattere  retroattivo,  il
 legislatore,   deve   comunque   uniformarsi,  oltre  che  ai  canoni
 costituzionali, ai principi della  ragionevolezza  e  della  coerenza
 logica,   nella   fattispecie   non   sono   ravvisabili  le  ragioni
 giustificative  espresse  nella  citata  sentenza  della  Corte   con
 riferimento  ad  una  situazione  di  carenza  normativa,  laddove si
 consideri che per il risarcimento del danno no esiste vuoto normativo
 alcuno, stante la richiamabilita' della disciplina generale dell'art.
 2043   c.   civ.   e   dei   principi    enucleabili    in    materia
 dell'interpretazione giurisprudenziale.